Red in Italy – la cucina italiana e i miti del marketing

Red in Italy – la cucina italiana e i miti del marketing

Oggi abbiamo tutti gli strumenti per non scambiare la pubblicità per verità e se siamo orgogliosi della nostra tradizione culinaria è ora che iniziamo a distinguere tra realtà e mito

Giorni fa leggevo La Cucina Italiana – storia di una cultura, bel libro che però avvicino solo di tanto in tanto perché è molto denso, e ho avuto un’illuminazione. O meglio, ho fatto delle considerazioni in relazione a ciò che ho letto.

Ripercorro qui con voi i miei processi mentali, stimolati da varie fonti, che mi hanno fatto arrivare alla conclusione che la cucina italiana tradizionale fa uso di poco pomodoro, tranne per le ricette regionali delle zone in cui c’è una grande produzione di tale frutto (come la bella zona dove abitate voi, cari lettori di Viv@voce).

Partiamo dall’inizio: il libro che ho menzionato fa una panoramica della storia della conserva, una tecnica applicabile un po’a tutte le verdure e che permise finalmente di avere sempre a disposizione primizie di stagione senza doverne alterare il sapore, a differenza di come si faceva sino ad allora con i vecchi metodi di conservazione (sale, olio, aceto, essiccazione, affumicatura).

Un procedimento che molti di noi danno per scontato, cioè di poter bollire il barattolo che contiene le verdure fresche e poterlo quindi così conservare per mesi, fu una vera e propria scoperta fatta da un droghiere francese, tale Appert, che sino al 1810 tenne segreto il procedimento.

In Italia la conserva per eccellenza fu subito il pomodoro e l’industria che dietro a questa scoperta si sviluppò monopolizzò l’informazione rivolta alle massaie, tanto che negli anni ’60 Cirio era l’editore più famoso per i ricettari e le agende di casa. La caratteristica principale di tali ricettari?

La presenza di almeno un prodotto Cirio in ogni  preparazione. Ogni ricetta della tradizione italiana fu rivista in ottica di marketing, come accade oggi con i ricettari creati da Nutella o per il formaggio Philadelphia. Solo che noi, almeno per ora, non crediamo che la base della pasticceria italiana sia la crema di nocciole né che la base della cucina sia il formaggio spalmabile. Almeno per ora, ribadisco.

Grazie anche alla politica d’unificazione nazionale dettata dal fascismo, la cultura della scatoletta esplose in Italia, uniformando la cucina nostrana e regalandoci l’illusione di aver mantenuto in essa una base autentica.

Leggendo tali informazioni nel libro mi è venuto in mente l’ammonimento ricevuto anni fa da un conoscente che praticava la macrobiotica: l’abuso di pomodoro, come di agrumi, fa male; questi sono frutti acidi, da usare con parsimonia. Questo lo dico io perché in realtà il macrobiotico, da buon integralista, li aveva eliminati del tutto dalla sua dieta. Ma anche dalle posizioni più estremiste si possono trarre stimoli interessanti.

Questo ricordo me ne accende un altro e, dopo aver cercato un po’ nella mia libreria, trovo il libro in questione: Dizionarietto delle tradizioni e del mangiare, pubblicato dalla Comunità dei Monti Azzurri nel 2001.

Nel libro si spiegano tante cose sulle tradizioni rurali delle mie parti, come il procedimento per conservare i pomodori: i pomodori tagliati a pezzi erano messi in un telo e spremuti perché perdessero l’acqua.

Si facevano bollire per ore, poi erano passati al setaccio e poi ancora bolliti sinché non diventavano una pasta scura. Tale pasta era stesa sulla spianatoia (la tavola su cui era preparata la pasta o stesa la polenta) e il tutto era messo al sole per asciugare (tale fase era detta “la spasa”). Il prodotto finale era tagliato a panetti, cosparso d’olio e conservato in recipienti di coccio, avvolto in carta oleata.

A parte la laboriosità del procedimento, il risultato è quello che c’interessa: non bottiglioni di passata da svuotare nella pentola, ma un prodotto semi-solido, probabilmente da allungare con acqua al momento dell’uso.

Non credo di essere l’unica a ricordare la nonna che in cucina usava il doppio o triplo concentrato di pomodoro per dare colore a dei piatti che di pomodoro ne contenevano poco. Difatti molte ricette tradizionali italiane sono rossastre, appena tinte di rosso, come il ragù bolognese, alcune zuppe di pesce o legumi e così via.

In altre parole, la cucina italiana apprezzò l’arrivo del magico frutto, ma sino al boom economico non ne abusò. È stato il marketing a convincere le massaie italiane che di pomodoro ce ne volevano litri e litri. Ribadisco: tale discorso non vale completamente per le aree che producevano pomi in abbondanza.

Voglio dire: se la terra ti dà pomodori, tu facci una salsa. Anche se ricordo bene il fratello di mio nonno mentre mette i pomodori a essiccare sui graticci in estate, il che mi indica che ovunque si è sempre cercato di conservare e usare con parsimonia certi prodotti della terra.

Dov’è la grande scoperta, il colpo di coda dell’articolo? Non c’è, credevo fosse interessante condividere con voi queste informazioni per ridimensionare certi miti e, magari, iniziare a fare scelte più consapevoli: ormai sappiamo che certi bisogni sono stati indotti da chi produce cento pezzi di un prodotto di cui ne servirebbero dieci, quei dieci che il territorio riesce a produrre.

Invece chi produce vuole venderne cento e per fare questo trova altrove gli altri novanta pezzi che gli mancano, oppure li ottiene spremendo la terra o le persone e i loro guadagni. Un circolo fine a se stesso, esterno ai nostri bisogni, ragionando sul quale potremo valutare la possibilità di riprendere a consumare dieci invece che cento.

Se v’interessa scoprire altri miti del genere, basta cercare informazioni sulla madre delle bugie vendute come scienza: la macchina della propaganda americana messa al servizio delle corporation. In quel Paese sono partiti tanto tempo fa a modificare la percezione dei consumatori rispetto a ciò di cui hanno bisogno.

Basta leggere il libro Propaganda, scritto da uno dei padri delle teorie del marketing, Edward Bernays, per capire perché ci hanno messo in testa cose come che ci servono camion di vitamina C in inverno (mito generato da uno scienziato quantomeno monomaniacale, tale Linus Pauling, che ha oltremodo aiutato produttori di arance e d’integratori alimentari) o che il fluoro fa bene ai denti (almeno noi europei ci siamo rifiutati di metterne nelle condotte dell’acqua potabile, cosa che invece hanno fatto gli americani per aiutare l’industria dell’alluminio a consumare la sua produzione, avvalendosi della collaborazione dell’American Dental Association, l’associazione nazionale dei dentisti).

Pensateci, pensiamoci: oggi abbiamo tutti gli strumenti per non scambiare la pubblicità per verità e se siamo orgogliosi della nostra tradizione culinaria è ora che iniziamo a distinguere tra realtà e mito.

 Dafne Perticarini

 

viv@voce

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