Red in Italy – vivere di turismo

Red in Italy – vivere di turismo

Il Made in Italy è spesso una chimera che nasconde le cose di valore ai forestieri e illude noi italiani con promesse vane

Come dicevo nel primo articolo di questa serie, tutti abbiamo creduto al sogno del Made in Italy che ci avrebbe riportato sulla cresta dell’onda, facendo finalmente crescere l’Italia grazie a industrie pro e non contro il territorio.  Anch’io ho creduto in questa opportunità e non da ieri, né dal 2010, anno in cui ho lasciato un lavoro con contratto a tempo indeterminato per scoprire cosa sapevo fare nella vita.

Ci credo ufficialmente dal 2002, anno in cui iniziai a frequentare un corso di formazione professionale della durata di 6 mesi. Si chiamava Corso per operatore prodotti tipici e tradizioni rurali e per quanto il nome non prometta niente di consistente era ben fatto, sicuramente più qualificante di tanti altri corsi simili organizzati negli ultimi anni.

Scrivo questo con cognizione di causa perché ho lavorato nel mondo dei corsi FSE, cioè finanziati dalla comunità europea, e ho continuato a frequentarlo nella speranza di trovare opportunità di lavoro e so, come molte altre persone d’altronde, che spesso questi corsi sono ottime fonti di denaro per gli organizzatori ma creano zero opportunità d’impiego.

Tornando al nostro discorso, ci credetti davvero al progetto di vivere lavorando nel settore turistico, accogliendo forestieri e facendo del bene al mio territorio, invece di continuare a stare otto ore in piedi dietro al bancone di una fabbrica o di un supermercato. Io ero finita in quei posti di lavoro alienanti per necessità, non certo perché lo studio mi puzzasse, come si dice dalle mie parti.

L’esperienza che avevo fatto mi era bastata e a 22 anni volevo provare a svolgere un lavoro che avrei amato. Ma, c’è sempre un ma.

Se gli organizzatori del corso e i docenti erano persone affidabili, chi avrebbe dovuto aiutare i partecipanti a inserirsi tra le maglie di uno dei settori più politici che probabilmente esiste – il turismo − era preso solo dal bisogno di mantenere la sua posizione il più a lungo possibile, limitandosi a fare promesse che non sentiva il bisogno di dover mantenere.

Ricordo la scena grottesca che vissi, come la delusione cocente che da lì maturai.

Avevo preso sul serio l’invito di un dirigente della comunità montana a cui il corso faceva riferimento e gli avevo chiesto un appuntamento. Egli accolse me e il mio compagno nella sua azienda di piastrelle persa tra le curve dell’entroterra marchigiano.

Non era pronto a parlare concretamente di quelle proposte che aveva fatto a cuor leggero davanti ai corsisti.

Tentò di parare il colpo dicendo che sì, c’era la possibilità di attingere a fondi per la ristrutturazione delle case di montagna se ne avessimo acquistata una e che sicuramente la comunità montana ci avrebbe aiutato a trovare clienti se avessimo aperto una struttura ricettiva in quell’angolo sperduto di mondo.

Mentre noi eravamo lucidi nell’ipotizzare una scommessa così grande come isolarci sui monti Sibillini per aprire un B&B o qualcosa di simile, lui non riusciva neanche a prendere sul serio le sue parole.

Ricordo la stanza male illuminata, l’ufficio e il negozio preda del disordine -chiaro segno della confusione mentale del loro proprietario -, la voce del nostro interlocutore che si faceva mano a mano più bassa, come se stesse parlando da solo nella stanza e si stesse assopendo. La cosa era così palese che io e il mio compagno ci guardammo, chiedendoci se non avessimo dovuto battere le mani per destarlo.

«Ma no, infatti, va bene così. D’altronde è dura vivere in montagna, in inverno ci saremo depressi e avremo fatto la fine dei protagonisti del film Shining.» commentai mestamente in auto sulla strada di ritorno a casa.

Con tale considerazione si chiuse il mio primo tentativo di fare un lavoro gratificante e io dopo alcuni mesi passai al lavoro successivo, visto che comunque quello che stavo svolgendo all’epoca non era sufficientemente retribuito. Di nuovo mi ritrovai in un supermercato, con le lunghe ore da passare in cassa.

«Questo è l’ultimo lavoro di merda che faccio» giurai e piena di rancore iniziai quella che per i successivi 7 anni sarebbe stata la mia professione, prima come cassiera e poi come parte del management di filiale.

Per oggi è tutto; sembra che io sia uscita dal tema della rubrica, ma non è così. Il mio libro Red in Italy, come questi articoli, cerca di spiegare come il Made in Italy sia troppo spesso una chimera che nasconde le cose di valore ai forestieri e illude noi italiani con promesse vane.

That’s all folks! Alla prossima puntata.

Dafne Perticarini

 

 

 

viv@voce

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