Red in Italy- direttori coraggiosi

Red in Italy- direttori coraggiosi

L’altro ieri ho ritrovato un protagonista del mio libro: il preside dell’istituto alberghiero Einstein-Nebbia di Loreto

L’occasione dell’incontro è stata veramente piacevole visto che si è trattato di un pranzo all’interno dell’istituto, preparato dagli alunni delle classi seconde e gustato da genitori e insegnanti.

Come al mio solito, ho capito male e mi sono trovata seduta alla tavolata della direzione con una piadina in pancia, ma partiamo dall’inizio.

Con il professor Torquati ci eravamo sentiti dopo l’uscita cartacea del libro, di cui gli avevo portato una copia, e lui mi aveva detto che mi avrebbe ospitato nella sua scuola per fare una presentazione.

Qualche giorno fa mi ha mandato un email, in cui mi chiedeva se volevo partecipare a un incontro genitori-insegnanti, così avremmo potuto metterci d’accordo su quando e come dare spazio a Red in Italy. Nella mail accennava anche al fatto che avrei potuto restare a mangiare, ma visto che l’appuntamento era alle 13 e 40 ho pensato che si trattasse di un invito generico e sono arrivata all’istituto a stomaco pieno.

Un ragazzino rossiccio in divisa bordeaux sta alla porta e manda i genitori al secondo piano per l’incontro, ai quali mi accodo.

In cima alle scale, fuori dalla grande sala dei banchetti, c’è un tavolo con studenti in divisa che controllano la lista degli invitati, altri che prendono loro il giubbetto e altri ancora che li fanno accomodare ai tavoli. Resto un po’ perplessa e cerco con lo sguardo qualcuno che abbia l’aspetto di un insegnante.

Alla fine mi rivolgo a un ragazzo ed è lui a chiamare un suo professore per capire chi sono e dove devo andare, mentre sbuca il preside alle mie spalle dicendo «Stavo proprio mandando a dire alla reception di farla venire quassù. Venga, starà al mio tavolo»

Siamo un po’ imbarazzati, sia io che il preside, che le signore sedute con noi, ma presto ci sciogliamo e io riesco a capire che questo pranzo è un’unità d’apprendimento, che al tavolo dietro di noi sono seduti i professori, i quali valutano i ragazzi come durante un esame, mentre negli altri tavoli mangiano gli orgogliosi genitori.

Le persone sedute intorno al tavolo della direzione hanno l’occhio clinico dopo anni di pranzi simili e si lamentano delle sbavature del servizio, di una scarsa coordinazione in alcuni momenti.

Sarà vero, per carità, ma se lo chiedete a me è stato tutto perfetto. A parte la tenerezza che suscita vedere questi appena adolescenti cercare di essere professionali in divise che mettono in evidenza i loro goffi corpi in crescita, m’incanto a osservare la professionalità della ragazza africana e di quella presumibilmente indiana che sorvegliano tutti i tavoli da due postazioni centrali, andando a riempire il bicchiere di chi ha terminato il vino con modi discreti, dei ragazzi disabili che ho riconosciuto come tali solo al secondo cambio di piatto.

E poi il cibo è ottimo. Sono stata a ristoranti d’alta cucina e in trattorie e se nelle seconde il risultato è più prevedibile, nelle prime incontri più spesso delle brutte sorprese: per un’esperienza che ti stupisce e ti educa, ce ne sono dieci che ti fanno sentire solo stupido, egocentrico e/o raggirato.

Al pranzo dell’istituto ho trovato la qualità delle materie prime, un’idea originale nella ricetta e la capacità di realizzarla in modo corretto. Certo che dietro c’è il lavoro sapiente dei docenti, ma sono ragazzini di 16 anni che l’hanno fatto e io all’età loro ero poco più di un’ebete che sapeva un po’ di francese, latino, storia e matematica.

Prendo appunti mentre sono a tavola, faccio foto, ma non mi serviranno a molto. Sono solo azioni per riempire il tempo mentre cerco di capire. E finalmente capisco il valore di una scuola professionale seria.

Questi ragazzi sono costretti a mettere alla prova le loro capacità, potendo farlo però in un ambiente controllato, che permette loro di sbagliare e riprovare. Nel mio percorso d’istruzione la scuola media ha fatto questo, forse anche l’elementare, ma non il liceo.

Non penso che bisogna sostituire Dante con un corso in azienda, ma che venga spiegato ai liceali perché studiano quello che studiano e per cosa servirà loro. Solo il mio professore di filosofia – un tipo in stile “Attimo fuggente”- si era preso la briga di farlo, ma evidentemente una sola voce non basta. Cosa serve studiare l’italiano e la letteratura l’ho capito dopo i 30 anni: a farsi valere nella vita.

La contaminazione che si è fatta negli ultimi anni della scuola superiore, mescolando licei e istituti professionali, è una risposta idiota a un bisogno reale, come spesso accade quando la soluzione arriva dall’alto e deve essere uguale per tutti. Una soluzione più meditata al bisogno di dare una finalità a degli studi che fatti solo per avere un titolo sono inutili è ancora necessaria.

La scuola professionale, quando riesce a sopravvivere ai tagli di ogni tipo, è in grado di dare tale risposta ai ragazzi.

Torniamo al mio pranzo fuori programma: come l’altra volta, il professor Torquati mi sembra un uomo perennemente attivo e a lui è dedicato questo pezzo, partendo dal titolo. Potrei riportare quello che mi ha detto, ma dovrei spiegarvi nel dettaglio le problematiche della scuola e ci perderemmo.

Quello che importa è il senso del suo lavoro. Lo guardo e penso che è una persona per cui vorrei lavorare, da cui imparare molte cose, perché in ogni difficoltà trova una soluzione, un’opportunità.

Non so se nella vita di tutti giorni ci troveremmo d’accordo, ma vedo che con le impiegate della segreteria – con cui dirige anche l’adiacente istituto di ragioneria, tra l’altro – si danno del lei e questo è già un buon segno.

Apro una parentesi: diffidate di chi in ambito lavorativo vi lancia abbracci e baci alla fine di ogni email. Tale tipo di persona, anche se subito accattivante, non si farà problemi a disattendere gli impegni presi esattamente come si fa in famiglia, dove l’affetto passa sopra alle mancanze.

Darsi del lei è sempre un ottimo modo per partire, poi sarà la stima creata sul campo a far maturare dei legami duraturi. A me è andata sempre così: quelli che erano amici si perdono per strada lavorandoci perché molte persone non accettano di sottostare ai ruoli creati dal rapporto lavorativo proprio a causa del legame affettivo tra voi.

Quelli che nel lavoro trovi simili a te per etica e senso dell’umorismo rimangono, con una simpatia reciproca che dura nel tempo.

Dopo il buon cibo, la presentazione di tutte le classi e gli applausi emozionati dei genitori ce ne andiamo; passo davanti al cancello a salutare il preside Torquati, che sta fumando il sigaro prima di riprendere il suo lavoro. «Mi scusi, sono molto stanco in questi giorni» mi dice, forse credendo di non aver brillato nella conversazione.

Io lo ringrazio sentitamente, perché un’accoglienza del genere non la davo certo per scontata, e rinnovo gli appuntamenti che ci siamo dati. La scuola ha vinto un concorso per un progetto sul Made in Italy, che porterà avanti con l’istituto d’agraria di Jesi: una scuola coltiverà i prodotti e l’altra li elaborerà, creando una serata a tema per la degustazione finale.

All’interno di questo lavoro faremo un incontro per il mio libro con gli studenti. Quindi ci rincontreremo con il professore e parlerò ancora di lui e delle cose eccellenti fatte dal suo istituto. Per adesso sappiate che scuole così in Italia esistono, sono pubbliche e funzionano con profitto grazie alle capacità di singole persone impegnate quotidianamente, come il preside Torquati e il suo staff.

Se tornassi indietro, non scambierei i miei libri di letteratura e filosofia con un corso di cucina, devo essere sincera, per quanto il liceo scientifico non fosse adatto a me. Ma darei qualsiasi cosa per una formazione più lucida, in cui mentre studi sai per cosa lo stai facendo.

E su questo punto i ragazzi dell’istituto Einstein ricevono mementi costanti, che li aiuteranno sicuramente a fare scelte pratiche nella vita.

Perché vi ho parlato di tutto ciò? Perché voglio inserire una voce controcorrente nel flusso di notizie che assorbiamo quotidianamente.

Non va tutto male, non c’è solo disoccupazione, scarsa professionalità e scuola allo sbando in Italia. Andate a guardare su Youtube il bel video dell’istituto Nebbia in cui i ragazzi spiegano tre ricette e poi iniziate a scorrere i video correlati: da Piazza Armerina a Piacenza c’è una sfilza di direttori che elogiano i loro istituti, le esperienze formative fatte dai loro ragazzi, gli sbocchi professionali immediati creati dalla scuola superiore che rappresentano.

Sono italiani, sono storie attuali, sono direttori coraggiosi che creano risultati positivi ogni giorno. Teniamolo a mente: le cose buone accadono anche in questo Paese, siamo noi che guardiamo altrove perché gli incidenti mortali ci provocano maggiore emozione delle persone che arrivano sane e salve a destinazione.

Iniziamo a rimodellare la nostra mente, credo che sia ora perché siamo diventati un popolo dipendente dalle emozioni forti e le notizie che ci fanno torcere le budella dalla rabbia.

L’Italia quando vuole funziona, gli italiani funzionano molto bene, nonostante tutto.

Dafne Perticarini

viv@voce

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