Don Backy. “La cultura e l’arte”

Don Backy. “La cultura e l’arte”

Intervista ad Aldo Caponi, in arte “Don Backy

Gli albori della sua carriera vedono la passione per la recitazione, per la musica e per la pittura, divenendo, poi, fiorenti nel corso degli anni. Uno dei suoi primi approcci musicali è stata la rivisitazione di “Non Arrossire” di Giorgio Gaber, come ci racconta quest’esperienza?

“Ero agli inizi della carriera e cantavo con un gruppo che si chiamava “KISS”. A me e al cantante, chitarrista del gruppo, Alberto Senesi, piacevano tanto gli “Everly Brothers”, di cui avevamo alcune canzoni in repertorio. Così, quando fui in grado di pagarmi l’incisione di un 45 giri, scelsi quella canzone di Gaber (che era il mio cantante di riferimento), perché si adattava benissimo a essere eseguita con quello stile a due voci”.

Durante il suo percorso artistico, ha vantato collaborazioni con grandi esponenti della musica italiana, come, ad esempio, il suo debutto, nel 1967, al Festival di Sanremo con Johnny Dorelli. “L’Immensità”, il celebre brano che ha riscosso grande successo, è stato ripreso da icone come Mina e Milva; cosa ha suscitato in lei, tutto questo?

“Nient’altro che il riconoscimento che il mestiere delle canzoni non è un mestiere fatuo e vano e, quando lo svolgono in questo modo, allora, vuol dire che ne è valsa la pena farlo. Se si considera che, oltre alle due cantanti citate, altri artisti, anche attuali, come i Negramaro, Francesco Renga, Mango, Gianna Nannini..che continuano a incidere questa e altre mie canzoni di quel periodo. Sono portato a pensare che le stesse fossero molto moderne fin da allora, cioè non incasellabili in quel determinato periodo”.

Nel medesimo anno, viene pubblicato dalla “Feltrinelli” il libro “Io che miro il mondo”. Lei diventa, così, il primo cantautore ad aver pubblicato un romanzo. Essere un artista poliedrico, a tutto tondo, che significato aveva in quell’epoca?

“Purtroppo per me, questo non era sinonimo di capacità di avere fantasia e curiosità da soddisfare in campi diversi. Bensì si correva il rischio concreto di dare l’impressione di voler strafare, di suscitare, cioè, un senso di spocchia, di voler travalicare i confini di quel mestiere dove ti avevano collocato e che, proprio per questo, si sarebbe disperso il consenso accordato al cantante-autore. Quindi, la raccomandazione era quella di startene buono buono, schiacciato laddove il pubblico ti aveva collocato”.

Ha avuto, anche, la fortuna di lavorare con Totò nel film “Il monaco di Monza”. Come ci descrive questa esperienza?

“Si può immaginare. Era il 1963, da pochi mesi arrivato al Clan, ancora misconosciuto e sulla rampa di lancio, laddove il film rappresentava una grande spinta, quindi ero, ancora, del tutto “paesano”, non ancora “cittadinizzato” e trovarmi di fronte a un mostro sacro che, solo qualche giorno prima vedevo al cinema con grande diletto, ebbene, fu un vero e proprio shock. Mi salvò il fatto che avevo, appena, scritto la canzone “La Carità” che cantavo insieme a Celentano e, quindi, almeno in quello, ero nel mio ambiente più naturale. Del resto, Totò fu molto affabile. Il tutto è narrato nel 1° Volume “QUESTA E’ LA STORIA..” della serie “MEMORIE DI UN JUKE BOX” (1939/2012), WWW.DONBACKY.IT, ovviamente, con più dovizia di particolari”.

La passione per l’arte, invece, da dove nasce? E cosa vuole comunicare attraverso i suoi dipinti, prettamente, paesaggistici?

“La passione per questo mestiere, o c’è o non c’è e, se non c’è, non te la puoi inventare. Parlo, ovviamente, di me nelle vesti di autore e cantante. Le altre esperienze artistiche, dal fumetto ai quadri, dal teatro al cinema, sono solo sfide lanciate a me stesso. Acquisite e superate quelle, sono state accantonate nella bisaccia delle esperienze, niente di più, niente di meno. Ora so quali sono le cose che posso fare bene e quali no, senza contare il piacere personale di aver scoperto mondi, altrimenti, sconosciuti. Attraverso i miei dipinti, penso proprio di aver, involontariamente, comunicato i miei stati d’animo del momento. Tutto qui”.

Con “Sognando” affronta una tematica rilevante, non comune. Perché, secondo lei, c’è questa inibizione per tali argomenti?

“Se si pensa che l’ho scritta nel 1971, si può fare ancor più di una riflessione su quanto sia cambiato il mondo. Allora, non riuscii a convincere nessuno a farmela incidere, tanto che fui costretto, io stesso, a pagarmi un’incisione “minore” nel 1974, peraltro mai pubblicata ufficialmente e della quale esistono pochi esemplari: solo in mano mia. Nel 1976, la lungimiranza di Mina, fece in modo che il brano venisse alla luce, attraverso una sua incisione, anche questa storia, narrata nei minimi particolari e leggibile nel 2° Volume “STORIA DI ALTRE STORIE..”, della serie “MEMORIE DI UN JUKE BOX”.

Infine, una delle canzoni più significative di Demis Roussos è “Il mondo degli uomini bambini”. A suo avviso, la valorizzazione delle virtù, speranzosa utopia di ritornare ad un mondo rispettoso, si potrebbe interpellare in questa canzone tramite il simbolismo?

“Purtroppo è un brano che non conosco, ma, indirettamente, posso rispondere che non penso si possa incidere più di tanto sulle virtù degli uomini, attraverso una canzone, a meno che non si abbia la voglia di cambiare e migliorarsi per davvero, ma, allora, nemmeno la canzone/messaggio ha più senso”.

Eleonora Boccuni

 

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