AMARCORD. LE NOSTRE ESTATI. SAVA NEGLI ANNI ‘60

Tanto, ma tanto tempo fa … questo era lo scenario del nostro paese nella prima metà degli anni ‘60. Sava anni ’60. I magazzini dei fichi. Un pezzo di storia savese

I magazzini dei fichi sono stati per tantissimi anni, per il nostro paese, una buona risorsa economica, seppur temporanea, la quale ha permesso a tantissime donne savesi di guadagnare i primissimi soldi da spendere per le loro esigenze, non molte per la verità, dell’epoca. Esigenze che erano contate su di un palmo di mano e che privilegiavano, quasi esclusivamente su tutte, il corredo (la classica “tota”, costituita dal numero delle lenzuola o degli asciugamani e il loro numero veniva classificato in “panna numero…”) da preparare per il matrimonio che era quasi spesso a due passi da loro.

Molto prima dell’apertura dei magazzini dei fichi, normalmente aprivano verso la fine di Agosto, molti savesi “traslocavano” nelle contrade vicine, la scuola chiudeva nella prima metà di Giugno e appena dopo la festa di San Giovanni Sava si spopolava e andava a ingrossare le campagne limitrofe e pochissimi erano quelli che, in alternativa, andavano al mare. Le casette “contadine”, erano tutte fatte da una sola stanza, piccolissima e accogliente, spesso non superavano i 20 metri quadrati e davano “sonno” e residenza temporanea a sette o, addirittura, a otto persone: i genitori, quattro o cinque figli al seguito, con i nonni che completavano la rosa. Se dovessimo guardare con gli occhi di oggi questo “sovraffollamento”, ci darebbe fastidio solo l’idea che qualcuno ce lo proponesse, ma allora la vita modesta e l’umiltà delle persone questo non lo vedevano affatto. La sera, le famiglie con noi piccoli sempre appresso, si scambiavano le visite di cortesia e parlavano “ti lu lauru”, stupida leggenda savese, per accelerare il nostro “sonno” tra le braccia rassicuranti e protettive delle nostre mamme.

Quasi tutti i terreni dei savesi erano pieni di ceppi di viti, contornati lungo il perimetro da immensi e maestosi alberi di fichi. Le qualità di questi alberi erano tra le più varie: il ruolo di “primadonna” toccava ai fichi uttati (dolcissimi), quando venivano raccolti si differenziavano dagli altri perché il loro prezzo di vendita, ai grossisti o agli ambulanti, era maggiore di quelli “normali”; poi vi erano li fichi fracazzani, li fichi sessi, e li fichi neri che completavano le qualità degli alberi. Piccolini salivamo sugli alberi armati di cruecculu e alla Tarzan cutulammu i rami per far sì che i fichi maturi, che non si potevano raccogliere direttamente, cadessero per terra per poi metterli nei cesti di vimini (li panari). Una volta completata l’azione “aerea” dovevamo fare attenzione a scendere dall’albero per non pestare i molti fichi che erano caduti per terra, che si mischiavano con quelli ancora più maturi denominati “coculi, che a loro volta venivano differenziati in quanto erano di qualità scadente.

Finita la prima fase “operativa” svuotavamo li panari sobbra alli cannizzi e differenziavamo tutta la raccolta, questo si faceva sotto un immenso albero di noce, di ghianda o di ulivo, di solito situato vicino alla casetta che ci faceva da ombrellone e ci riparava dall’orrido caldo di quei tempi. Finita la seconda “operazione” con i coltelli spaccavamo in due i fichi raccolti e li mettevamo in modo inclinato nei vari scomparti ti lu cannizzu e nella fase successiva li mettevamo al sole per farli essiccare bene. Che noia questo “lavoro”! Ma allora era tassativo o lo facevi o lo… facevi! Le nostre mattine estive campagnole erano spesso così: al mattino le nostre mamme ci preparavano le frise fatte in casa che “divoravamo subito” e poi di corsa a raccogliere i fichi.

Quando qualche residente estivo, abitante vicino alle nostre casette, vedeva scoccare mezzogiorno, si apprestava subito con diversi colpi di zappa o di martello, dati ad una vecchia bombola del gas, spesso appesa a qualche ramo con una vecchia corda, e ci avvisava che era arrivata menzatia: si mangia! Il tavolo di legno era ricoperto da tovaglie bianche di cotone grosso, con spesso sopra ricamate le iniziali delle nostre mamme, boccali di acqua del pozzo con al fianco il classico buttijoni ti mieru che a noi era tassativo assaggiare (qualche di volta, di nascosto, lo abbiamo fatto avendo come risultato l’aspro in bocca)! Ed ecco pronti i piatti: il piatto più grande (lu piattu spasu) era riservato ai nostri genitori, mangiavano assieme nello stesso piatto, e corrispondeva per capienza a tre piatti fondi normali.

Dopo questo piatto vi era il piatto minzanu (la capienza era la metà del piatto dei nostri genitori) che toccava, di diritto, al figlio maschio più grande e di seguito i piatti più piccoli ai restanti figli. Questi piatti erano singolari, oltre ad essere unici per la verità, perché erano smaltati di color bianco lucido con il classico bordino blu lungo la parte rivoltata. Non si iniziava a mangiare se non si dicevano le preghiere e se non si ringraziava Dio per il cibo che stavamo per ricevere. I piatti erano spesso pieni di pasta fatta in casa (laijna, ricchiteddi e maccarruni) fatti con farina grossa, di fave, di ceci, di piselli, di peperoni ripieni (che buoni!!!) o di melanzane alla parmigiana (ancora migliori!!!) e con la tanto attesa “carne” che arrivava spesso sulla nostra tavola la domenica. Questi “sapori” essendo unici, erano le prelibatezze dell’epoca. I nostri piccoli piatti non conoscevano “rimanenze”, anzi non ci potevamo permettere di lasciare il cibo nel piatto!

La sera prima dell’imbrunire mettevamo li cannizzi uno sopra l’altro (questa operazione la chiamavamo ‘ncannizzari’) per poi ricoprirli con un grande telo impermeabile per far sì che la pioggia o l’umidità della notte rendesse i fichi non più buoni. Era normale l’acquisto dei pulcini per portarli in campagna e allevarli nelle gabbie durante la “colonia estiva”, ma alla fine i pulcini facevano in tempo a diventare nostri compagni di piatto, anche se con ruoli diversi.

Giocavamo all’altalena, ma la gioia più grande era affondare i nostri piedi piccoli e minuti nel fango di terra rossa, appena smetteva di piovere, sembrava che imitassimo i grandi quando pigiavano l’uva con i piedi nei palmenti, i piedi erano impastati all’inverosimile con la terra. Ogni giorno “controllavamo” se l’uva bianca era pronta alla maturazione, spillando acini a volontà con il conseguente richiamo da parte dei nostri genitori. L’estate era per noi savesi motivo di preparazione alimentare all’inverno, si preparavano i prodotti da consumare nella lunga invernata, stagione che non dava frutti. La vendemmia era il frutto di tutto il lavoro fatto nei campi dai nostri contadini e, appena terminata, si tornava subito a casa perché i palmenti erano pieni di uva da stumppari con i piedi e da mettere sotto la furata (torchio). I magazzini dei fichi cominciavano ad aprire i battenti!

Ci fermavamo spesso e volentieri davanti ai palmenti, ci incuriosiva molto il linguaggio che usavano i trainieri (o meglio li astasi) quando contavano le unità di misura che erano dettate dalle menze (recipienti di metallo di circa cinquanta litri). Sia i termini cincunella e taja la ticina, sia la rapidità degli astasi a contare sono rimasti impressi nella nostra mente. Il mercato settimanale si svolgeva in Piazza San Giovanni e Via Del Prete era piene di baracche di ambulanti che vendevano di tutto. Vedevamo delle facce “curiose” e le guardavamo in modo attento.

Quella che più di tutti attirava la nostra attenzione era Maria Pichierri sicuramente più famosa come Bambulina, con le borse agli occhi e il suo intrigante aspetto bruno con un fare da borgatara romana, molto simile a quello di Anna Magnani, che con la sua 124 Fiat familiare vendeva detersivi e cose varie (nessuno ricorda il Kid 44 con il classico bicchiere di vetro in omaggio?) Dopo Maria Pichierri era “curiosa” Marchitelli Fondina (Fundina) di origini baresi ma trapiantata a Sava, anche lei ambulante che vendeva stracci usati e pezze vecchie, famosa la sua frase “jamma belli, jamm! Stamatina tinimu li cchiù belli scampuli. Scapati! A vinti liri! A trenta liri! A cinquanta liri!” Ci faceva sorridere la sua parlata barese-napoletana, come ci faceva sorridere il suo modo di camminare svelto come il fondoschiena mpizzatu con lo sguardo che si spostava da una parte all’altra per “rassicurarsi” che la sua merce non venisse “espropriata”! E che dire di Colino?

Detto così sembra uno “qualunque”, un nome derivato da Michele o da Nicola, ma detto “Colino quello degli anelli” allora non era uno qualunque! Si vedeva che usciva da un mondo extrasavese: le dita di entrambe le mani piene di anelli d’oro, addirittura gli stivali con gli speroni dorati alla cowboy, indossava classiche camicie bianche con il collo lungo e il suo sguardo sorridente! Che personaggio! Quando camminava Colino si muoveva tutto, sembrava che fosse un robot e tutti si giravano per “osservarlo”, si muoveva atteggiandosi e sentendosi gli occhi addosso di tutti quelli che incontrava e non si curava affatto dei loro sguardi beffeggianti, diritto verso la sua meta: “la chiazza”.

Altro personaggio “teatrale” savese, diciamo alla napoletana maniera di Eduardo De Filippo, era Antonio Mero con la classica pettinatura alzata, anche questo nome detto così non vuol dire niente, ma detto Bunnanzia allora ci viene in mente subito! Lui con il suo insostituibile carrellino con le ruote in metallo e con una classica giacca a quadroni, che portava per anni interi addosso, raccoglieva tutte le bottiglie che trovava nel paese e le depositava al fianco della sua abitazione che si trovava in uno scantinato di fronte alla attuale Caserma dei Carabinieri alla Via per Uggiano. La sua abitazione era sommersa da un numero impressionante di bottiglie vuote, manco se fosse un cimitero di vetro. Il suo caro e amato cane, sempre attaccato al carrello , che finì il resto della sua vita con una cecità evidente.

Quante figure “curiose” sono passate davanti agli occhi della nostra infanzia e con una ottima memoria riusciamo a rispolverare e a ricordare che anche Sava era fatta da questi personaggi. I magazzini dei fichi entrano in pieno regime lavorativo, diverse centinaia di donne savesi trovano la loro occupazione in questi immensi stabilimenti di assemblaggio di fichi secchi da cuocere al forno. Noi lasciamo le scuole elementari e approdiamo alle scuole medie, iniziamo a sentirci più grandi; nell’intervallo estivo i nostri genitori non ci vogliono vedere in mezzo alla strada e ci “impongono” di trovarci un qualsiasi lavoro. Il falegname, il mercato, le pompe di benzina, i muratori, gli intonachisti, vedono ingrossare le loro file di apprendisti estivi savesi che vedono i primi calli sulle mani!

Alle 12.30 finisce la prima fase lavorativa delle donne nei magazzini dei fichi e fuori vi sono tantissime persone che per motivi molto simili aspettano l’uscita delle donne savesi: mariti, fidanzati, potenziali corteggiatori o fratelli maggiori. Centinaia di donne uscivano dallo stesso portone, fuori i motorini e le poche auto sfrecciavano tra i buchi delle strade e i primi giradischi che i giovani savesi avevano montato nelle loro auto al primo buco, e pure allora di bocuri nnci nnerunu moti, saltava la prima strofa della canzone!

Cominciavamo ad avere nelle nostre case i primi giradischi e i primi 45 giri, Lelio Luttazzi presentava alla radio, il lunedì e il venerdì, Hit Parade. Le ragazze uscivano contente e felici, le più “audaci” accendevano le prime sigarette con la conseguente tosse e gli occhi annebbiati dal fumo! Le vedevamo sottarazzu tra di loro, cinque, sei, sette, formavano una schiera di donne “belle, robuste e prosperose”, alimentate da cibi magri e non grassi: l’acne giovanile fece la prima comparsa nella generazione seguente. A volte si assisteva al comportamento irascibile di qualche genitore nei confronti del corteggiatore o del fidanzato della figlia o le botte alla medesima al solo fatto di averla vista parlare con “qualcuno”.

Questo era l’aspetto che in quell’epoca non avremmo mai voluto vedere. Cominciano a sorgere nei nostri paesi i primi “Club” e i ragazzi iniziavano a portare i capelli lunghi e i jeans rattoppati, iniziavano a nascere a Sava nuovi complessi rock e il più famoso, dell’epoca, era quello dei Jewels ’68. Troppo “giovani” per iniziare a capirei Beatles, i Rolling Stones, i quali erano seguiti dalla generazione precedente a quella nostra e quando sentivamo i commenti degli anziani su questa musica era tutto un programma: totta frajiutu e niente di più!

Nasce il nuovo centro siderurgico tarantino e moltissimi contadini lasciano i lavori faticosi dei campi. Iniziano a mostrare le loro gambe le ragazze savesi: sono pronte le minigonne, molto sexi per noi maschietti in crescita e sentivamo il mormorio disprezzante degli anziani quando le ragazze passavano e la frase mmmucciabiti quiddi jammi caminati era sempre pronta!

I magazzini dei fichi hanno accompagnato le trasformazioni di Sava, accompagnato i desideri, gli amori delle lavoratrici, i continui scambi di fotoromanzi negli incontri quotidiani , i sogni, le aspirazioni future, senza scordare affatto che sono stati anelli, di congiunzione, per la costituzione di nuove famiglie ed ora quando li vediamo abbandonati, e quasi tutti in disuso, ci vengono in mente quello che sono stati: un pezzo della nostra storia. I cambi dei tempi li notiamo anche da questo, sono tutte fasi, anche se diverse tra di loro, che hanno accompagnato la storia di Sava e seguito le sue lente, lentissime, trasformazioni.

Giovanni Caforio

viv@voce

2 pensieri su “AMARCORD. LE NOSTRE ESTATI. SAVA NEGLI ANNI ‘60

  1. Volevo ringrazziarvi per questo articolo,mi ha fatto ritornare al passato a quando ero solo un ragazzino ma orgoglioso di aver vissuto quel periodo. Altro che internet e cellulari, prima ci si divertiva con niente ,c’era piu vita.Purtroppo vivo lontano da Sava ormai da molti anni e ci torno solo in estate ,ma credetemi anche se Sava non ha niente e diventa sempre peggio ,a me manca molto,e quando grazie a voi leggo questi articoli mi sento a casa.Se mi é permesso vorrei proporvi che sarebbe bello se mettereste vecchie foto di Sava magari con vecchie cartoline ,cosi da far vedere come é cambiata nel tempo.Ancora un grazie e spero di leggere altri articoli del genere. P.S. sono incerca di vecchie cartoline di Sava e vecchi documenti di ogni genere, anche pagando,contattatemi .Un saluto, ntonio.

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