Un giornalista di nome Giuseppe

Un giornalista di nome Giuseppe

“I mafiosi stanno in parlamento, i mafiosi a volte sono ministri, i mafiosi sono banchieri, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione. Il problema della mafia rischia di portare alla rovina, al decadimento culturale e definitivo l’Italia”. Giuseppe Fava

Era un Giuseppe Fava pacato, realista quello che pronunciava queste parole.

Era il 28 dicembre del 1983. Una settimana dopo, il 5 gennaio del 1984, fu ammazzato con 5 proiettili alla testa. Esattamente trent’anni fa, a Catania. E trent’anni fa, a Catania, si diceva che la mafia non c’era. L’aveva detto il sindaco Angelo Munzone. Il prefetto invece si limitava a inaugurare i negozi dei mafiosi, mentre il colonnello dei carabinieri si faceva immortalare con politici collusi. E la magistratura non indagava. La polizia dal canto suo arrestava i piccoli delinquenti. E non si limitava a mettere le manette. Ma li massacrava di botte.

Questa era la città di Catania negli anni Ottanta. Che era come tante altre città della Sicilia e come altre ancora d’Italia, in cui si negava la presenza del crimine organizzato.

Pippo Fava però era un giornalista come pochi. Intellettuale onesto, animato da un forte senso di giustizia, egli non si limitava a descrivere i fatti. Il suo era un giornalismo etico, fonte di verità, punto di riferimento dell’antimafia sociale.

Fava aveva intuito che non si doveva parlare di mafia, ma di sistema mafioso. Un sistema che affiorava dal basso ma che aveva le sue radici nelle stanze del potere. Dei meccanismi criminali che il giornalismo aveva ed ha il dovere di contrastare

E infatti, nel suo più famoso editoriale, “I quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa”, scritto nel mensile da lui fondato, “I Siciliani”, aveva denunciato quattro imprenditori che operavano a Catania: Carmelo Costanzo, Gaetano Graci, Mario Rendo e Francesco Finocchiaro. Tutti presumibilmente collegati a Michele Sindona e al capo mafioso Nitto Santapaola.

Per l’omicidio di Fava si batté la pista del delitto passionale. Quello di mafia fu inizialmente scartato. Come era logico in una città i cui vertici istituzionali negavano la presenza mafiosa!

Solo nel 2003, a quasi vent’anni dalla morte, per il suo omicidio sono stati condannati definitivamente all’ergastolo alcuni mafiosi, tra cui lo stesso Santapaola.

I presunti mandanti, gli imprenditori, no. Nonostante le inchieste e i processi in cui vennero coinvolti a vario titolo (Costanzo e Graci per associazione mafiosa, Rendo e Finocchiaro per tangenti), nessuno di loro è mai stato condannato, nonostante si fossero documentati i rapporti con mafiosi e le attività illecite.

Al funerale di Pippo parteciparono poche persone, per lo più operai e i suoi colleghi giornalisti. Nessun ministro, nessuna alta autorità pubblica, come invece accade per i funerali delle altre vittime di mafia. Era giusto che fosse così. Nessun ipocrita che macchiasse il suo ultimo saluto.

Giuseppe Fava ha incarnato l’essenza stessa del giornalismo, quello che non solo denuncia il malaffare ma che impone anche la legalità. Seguire il suo insegnamento, rendere il giornalismo una forza democratica, equivale a dare consistenza alla memoria storica di questo Paese, poiché non solo le sue parole ma anche il contesto in cui è maturata la sua morte, sono ancora attuali.

I mafiosi siedono ancora in parlamento, i mafiosi sono quelli che in questo momento sono ai vertici della nazione.

 FONTE

artspecialday.com

viv@voce

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