SAVA. Una strage. Chi non c’è più. E chi rimane

SAVA. Una strage. Chi non c’è più. E chi rimane

Alcune riflessioni …

Nei paesi si sa che grosso modo ci conosciamo tutti. Vuoi per aspetto, simpatia o conoscenza indiretta e diretta. E alcune volte, perché no, anche per antipatia.

A monte Sava che sta vivendo una singolarità storica: mai avvenuto nella vita del nostro paese, dal dopoguerra ai giorni nostri, un così feroce fatto di sangue che coinvolge parenti stretti che pur con i loro nuclei familiari costituiti non avevano mai perso quel classico “vincolo di sangue” e la casa natìa era sempre il classico fermarsi quasi quotidiano.

Per un motivo o per un altro, le facce familiari si incontravano spesso e volentieri nella loro quotidianeità. Conoscevo molto bene Raffaele, il pluriomicida, la sorella Nella e il loro padre. Ma anche Salvatore e, particolare curioso, anche il piccolo Alessandro.

Famiglia modesta, figlia di quel sud che ha portato i calli alle mani, dovuti dall’impugnazione della zappa, per diversi decenni. Da piccolo Raffaele aveva il viso a palla, cicciottello, simpatico a noi che avevamo quasi dieci anni in più di lui. Aveva una zia che abitava vicino alla mia casa paterna e spesso era lì a giocare con suo cugino Giovanni, di qualche anno più grande di lui.

I suoi capelli ricci e crespati emergevano su quel viso da moretto. Passano gli anni, anche i decenni, ma la memoria fotografica non sbiadisce. Ci si incontra da “adulti” e compare immediatamente il sorriso sulle labbra e la dicitura del nome. Qualche caffè bevuto assieme al Bar e qualche parola di circostanza. Ma permane sempre la simpatia.

Della sorella Nella, più piccola di qualche anno di Raffaele, anche lei scura di carnagione la incontravo quasi ogni mattina sotto casa. Direzione? Il Bar Windsor. La colazione assieme al marito Salvatore. Era quasi un rituale quello della coppia.

Come lo era il piccolo Alessandro, moretto anche lui, che ogni mattina passava dal marciapiede opposto alla mia abitazione diretto, con mamma Nella, all’edificio scolastico del “Bonsegna”. Alessandro con un sguardo attentissimo, con gli occhi vispi e i capelli sempre corti a volte diventava il mio sfottò: provavo a rincorrerlo, senza volerci riuscire, e così avevo “catturato” la sua simpatia.

Del padre di Raffaele e di Nella lo ricordo sempre in quanto pur da piccoli che eravamo il saluto ce lo siamo scambiati sempre. Da diversi mesi era dalla figlia e viveva nella sua famiglia e francamente era ben curato. Infatti, lo incontravo spesso nella Piazza, assieme ai suoi coetanei, e ci scambiavamo i ricordi della vita passata.

Di Salvatore invece, anticomunista viscerale, era bello dialogare con lui.

Spesso erano i problemi del paese quelli che venivano messi sul piatto. Ma anche lui era una faccia quotidiana incontrato spesso all’Elio Bar. Ultimamente mi sembrava cupo, quasi avvolto dai pensieri. Credevo che, può succedere questo a tutti, la depressione aveva cominciato a fargli visita. Non scambiava più parola con me. A volte, incontrandolo, era io a dirgli “Salvatore? Buongiorno!” e ricevevo un mesto ricambio.

Ai giorni nostri la tragedia. Una strage, supportata da una assurda avidità. Inspiegabile. Innaturale. Illogica. Sul selciato tre vite cancellate. Un omicida che non avrà più la sua vita.

Una famiglia segnata da un fatto così crudele.

E su tutto un’altra famiglia quasi cancellata. Resta il piccolo Alessandro con i tanti perché …

Giovanni Caforio

viv@voce

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