Inizi anni ’60. Collegio dei salesiani in un paese della provincia di Taranto

Una lettura che può servire a una riflessione su quello che c’è stato e che, tutt’ora, non ci scandalizza più di tanto

Oltre 400 bambini erano i residenti di questa mega struttura e ognuno di noi aveva un qualcosa in comune agli altri: o gli mancava il padre (come me) o gli mancava la madre e i più sfortunati erano coloro che non avevano ne un padre e tanto meno una madre che si potesse interessare a loro. Una vita all’interno dell’Istituto molto democratica, davvero. C’erano le regole e tu dovevi rispettarle e in campo pedagogico erano molto più avanti nell’educazione da impartire ai ragazzi. Questo tipo di educazione consisteva nello studio, nello svago, nell’essere religiosi e pregare (ma non eccessivamente). Mangiavamo abbastanza bene.

Quindi ogni mattina la sveglia era rigorosissima alle 7.00, alle 7.30 pronti ed ordinati davanti al proprio letto già sistemato e il controllo dell’assistente (prete) diceva se stava tutto a posto o meno. Poi messa in chiesa, poi colazione e pronti per andare a scuola nell’interno della struttura. Una organizzazione perfettissima in cui tutto funzionava alla grande. Una ventina di preti ci gestiva in tutto: sui libri e sul comportamento con gli altri. Io? Profitto eccellente ma indisciplinato alla grande. Spesso in punizione. Proseguo.

Il mio gruppo di amici era formato da tre o quattro tarantini, quindi più vaccinati di noi in quanto noi dei paesi sembravamo molto timorosi rispetto a loro. Loro erano sfacciati, più diretti, insomma più vissuti. In questo gruppo, circa una quindicina di ragazzi, calcoliamo 8-9 anni tutti, si aggregò un ragazzino, diciamo tranquillissimo, che dove andavamo andavamo i tarantini gli dicevano di andare via in quanto non lo volevano. Alcuni di noi disapprovavano questo atteggiamento dei tarantini e per alcune volte questo ragazzo veniva assieme a noi. Nei giochi lo emarginavano (ad esempio nelle partite di calcio mancava sempre il portiere e mettevano lui, dicasi il più fesso) ma noi, nel nostro piccolo cercavamo di integrarlo. Questo scenario si ripetette per oltre sei mesi. Un giorno ci chiama l’assistente, prete, a tutti noi escluso il ragazzino.

Il prete ci raccomanda di integrarlo con noi in quanto è giusto che ci dobbiamo volere bene e nella sfortuna che la vita ci aveva dato (la perdita di qualche genitore) comportarsi bene con gli altri era ciò che potevamo fare. Tutti zitti all’adunata, nessuno di noi fiatò. La figura imponente del prete era troppo forte per i nostri piccolissimi anni. Finita la tirata d’orecchi del prete andammo via nel campo di calcio. Ad un tratto i tarantini convocano tutti noi del gruppo. Ci riuniamo in un batter d’occhio e pronto il più lesto (Marchini  cognome di fantasia, e lo troveremo più avanti …) ci dice che già il prete voleva sodomizzare il ragazzino. Lui aveva letto bene, molto bene il contesto.

Noi restiamo perplessi, molto, anche perché erano le prime volte che sentivamo parlare di queste cose. Proseguono le nostre giornate all’insegna dello studio, del gioco e delle punizioni. Il prete sta sempre al fianco a noi a ricordarci di integrare Paolini (altro nome di fantasia di questo ragazzino, ndr) ma i tarantini non vogliono sentire ragione e tra di noi decidono una volta per tutte che Paolini deve stare fuori dal nostro clan. Paolini viene visto spesso con il prete, in giro nelle stanze dell’istituto, cosa che a noi era tassativo andare. Insomma i privilegi, tipo le cioccolate o la bevanda allo sciroppo d’amarena (buonissima, mamma mia!), per lui c’erano sempre.

Paolini, questo ragazzo non aveva nessuno dei due genitori, aveva degli zii che non si preoccupavano molto di lui e noi, alla fine della settimana, andavamo sempre a casa. Lui, invece, restava sempre lì. Quindi non aveva un riferimento affettivo diretto e la figura del prete, almeno dal lato affettivo, lo faceva sentire più protetto. Tutto questo, tra il prete e il ragazzino, proseguì per molti anni. Diventiamo grandi e usciamo tutti dal collegio alla fine delle scuole medie. Ci separiamo del tutto e tantissimi di noi tornano nelle famiglie di origine. Ci perdiamo di vista del tutto. Io dalla mia ho la fortuna di avere una ottima memoria fotografica.

Trenta anni dopo, in un bar a Taranto. Mi accingo a prendere un caffè e di fronte a me c’è un magnaccione con tanto di collana di oro spessa e pieno di tatuaggi in modo inverosimile. Lo punto con lo sguardo, lui mi guarda e con tono minaccioso mi dice che cosa voglio da lui e il perché lo sto guardando. Io lo guardo insistentemente e lui sempre più che si avvicina  a me quasi a volermi affrontare. Rido leggermente, lui si sente preso in giro e prima di buttarsi su di me, era un bestione alto quasi due metri e una stazza fisica quasi alla Tyson maniera, mi ripete per l’ultima volta che cosa voglio da lui. Lo stoppo. Gli dico di ricordarsi dove stava qualche decennio fa.

E lui mi elenca diverse carceri, quasi a volermi dire che io e lui forse ci eravamo incontrati in qualche carcere da reclusi. No. Gli dico di andare ancora al ritroso. Cambia espressione al viso, diventa più composto. Ma non gli viene in mente altro. Mi faccio avanti io e gli dico  “salesiani”. Mi guarda. Mi osserva attentamente. Mi dice che onestamente non sa affatto chi sono io ma che comunque in quel collegio ai salesiani, lui c’è stato. Gli dico il mio cognome e gli dico anche il suo di cognome. Di scatto fa cadere il bicchiere per terra della birra, il barista comincia ad aver paura. Per il barista sembra che sia un preludio per una scazzottata. No. Non è affatto così.

Mi viene incontro e mi abbraccia fortemente. Si mette a piangere, anche a me scendono le lacrime. Il barista si sente più sollevato. E via ai ricordi! “Tu”, rivolto a me, “piangevi sempre eri il più piccolo del gruppo e non ti si poteva mai dire nulla che piangevi”. Era vero. “Ti portavamo con noi perché ci facevi copiare i compiti, altrimenti non stavi mai con noi”. Eh già. Andiamo avanti. Mi parla della sua vita: furti, rapine, puttane, insomma un vero e proprio almanacco del crimine. Andiamo ora ai nomi di chi stava con noi.

Quello, quell’altro e quell’altro ancora, ecc. Gli dico se sa nulla di Paolini. Marchini  mi guarda e mi racconta di questo ragazzo. Entra ed esce da un carcere per pedofilia! Ah. Mi dice che spesso sta davanti alle scuole ad adescare ragazzini. Insomma è diventato un pedofilo. Quindi detta in breve, ma brevissima, se ieri era vittima oggi è carnefice. Deturpata la sua psiche …

Giovanni Caforio

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