AMARCORD. IL CINEMATOGRAFO A SAVA

AMARCORD. IL CINEMATOGRAFO A SAVA

Un pezzo della nostra storia, un pezzo della nostra vita, un pezzo di Sava. C’era una volta il cinema a Sava: il cinema Moderno, il cinema  Miccoli, l’ Arena  Giardino e il cinema Vittoria …

Salvatore, “Totò”, vive ormai a Roma da moltissimi anni: lasciò il suo paese in Sicilia, Giancaldo, piccolo centro di pescatori e agricoltori. Nella sua terra d’origine erano rimaste la madre e la sorella piccolina, portò via con sé i mille ricordi della sua infanzia e l’immenso amore per il cinema o meglio per il “cinematografo”.

Ora è diventato un affermato regista di fama mondiale consacrato definitivamente dall’assegnazione di un premio internazionale ad un suo film e in questa occasione gli arriva la notizia, tramite la madre, della morte di Alfredo, suo caro e affettuoso amico adulto. Salvatore comincia subito a “scavare” nella memoria e immediatamente diventano nitide tutte le fasi della sua crescita e l’affetto che nutriva nei confronti dello scomparso Alfredo, proiezionista cinematografico della vecchia parrocchia paesana.

Lo scenario d’avanti ai suoi occhi si apre subito con la fine della seconda guerra mondiale: il padre che non torna più dal fronte, la madre giovane e bella bruna siciliana che rinuncia alla sua vita per dedicarla all’amore e alla crescita dei due figli, il suo primo e grande  smisurato amore per una graziosa fanciulla bionda, le tante facce scalfite e ben salde nei suoi ricordi, i personaggi che caratterizzarono la sua infanzia.

Le cose che avevano segnato la sua giovanissima età vengono rispolverate e messe a lucido. Tra queste in assoluto la sua sconfinata passione per il cinema. Salvatore fu “adottato”,  forzatamente, da Alfredo nella sala del Cinema Paradiso dove lui trascorreva tutte le sue serate aiutando l’amico nella proiezione.

Il parroco del paese era un inflessibile censore e riteneva “immorali” addirittura le scene di baci, ma così non era per Salvatore che teneva nella sua casa gli spezzoni che erano stati tagliati dai film, ed erano conservati con cura dalla madre, nella sua stanzetta, assieme alla cara e insostituibile bicicletta. In quella stanzetta vi era tutta la sua infanzia, tutta quella parte di “lui” che lo aveva reso ricco e famoso: l’infanzia cinematografica.

Decide di tornare a Giancaldo, da quando ventenne andò via promettendosi di non ritornare più, per assistere ai funerali di Alfredo: l’incontro con la vedova, ormai segnata dagli anni e dai capelli bianchi, lo sguardo incrociato con la “maschera” del cinema (un bravissimo Leo Gullotta) pieno di rughe e con i capelli cortissimi, la tristezza sul volto di “Giginu lu napilutano”, che acquistò il cinema Paradiso dopo aver vinto alla Sisal aggiungendo al vecchio nome del cinema la sola parola Nuovo, o addirittura lo sguardo fisso del “comunista” del paese che lasciò Giancaldo per emigrare all’estero con la classica frase, e conseguente sputo per terra, “Addio schifo di paese”.

Lui, il comunista del paese, a cui i proprietari terrieri del luogo non davano da lavorare nei campi per via del suo credo “comunista”! Lui che beffeggiavano con la frase famosa “Il lavoro tu fattelo dare da baffone (Stalin)” che veniva seguita subito con la lapidaria risposta “Adda venì baffone!”. Anche lui era tornato a Giancaldo, invecchiato e con le lenti spesse ma con la pensione estera che gli garantiva una vecchiaia economica più tranquilla.

Nel  panorama umano dei “giancaldini” Salvatore fissa lo sguardo sulla prostituta del paese, sempre trasandata e spettinata, che chissà quanti ragazzi di Giancaldo e paesi limitrofi ha svezzato, lui compreso. Molto espressivo l’incontro con il “padrone della piazza” che ripeteva spesso e volentieri “Picciotti, non scherzate, la piazza è mia”: un personaggio molto simile al nostro Piero Piccinni (nella foto sotto, ndr), sempre seduto sulle scale della Mater Domini a gambe spalancate, che fa su e giù in continuazione sulla “banchina” di Piazza San Giovanni! Giancaldo molto simile a Sava! Salvatore, Totò, trova molte sorprese.

Un paese ai sui occhi irriconoscibile ma la cosa che più lo rattrista sono le ruspe, che nell’occasione sono state incaricate dal Comune siciliano per demolire il suo vecchio amore: il Nuovo Cinema Paradiso è struttura ormai fatiscente ed è stata comprata dall’Ente istituzionale per realizzare un parcheggio per auto. Giancaldo uguale a Sava! Le vecchie sale cinematografiche savesi sono quasi abbandonate del tutto, tranne il cinema Vittoria che sopravvive in modo eccelso nonostante i tempi cambiati.

Il cinema Moderno in totale stato di abbandono (qui sicuramente il termine fu coniato dal defunto proprietario Gregorio Miccoli per caratterizzare il “nuovo” che quarant’anni fa si affacciava).

Il cinema Miccoli è fatiscente e con la problematica dell’amianto sfibrato. L’arena Giardino, cinema estivo dei savesi, su Corso Umberto è solo un vago ricordo: peccato! Quante generazioni sono passate da queste sale e quanti ricordi ci portiamo dietro della vita cinematografica di questi cinematografi, sempre pieni nei giorni festivi e non sempre vuoti nei giorni feriali, una fetta di storia della nostra Sava, delle diverse generazioni che sono passate da questi luoghi, gli innumerevoli ricordi e le facce curiose che ci restano tuttora impresse nella mente, nonostante la nostra odierna adulta età.

Da piccoli eravamo sempre fuori dal cinema ad aspettare che aprisse, una o due ora prima dell’apertura dei botteghini, l’ansia di entrare si sentiva subito dopo aver pranzato in fretta e furia, ben pettinati, con il vortice bene in vista (lu tuppu smiersu!) e molto curati dalle nostre mamme avevamo in mano i soldi contati che erano le classiche 35 lire per il biglietto ridotto!

Le sale ci sembravano imponenti e immense, le sedie erano ben salde alla pavimentazione in liscio di cemento, ma a volte, il continuo dondolio di noi ragazzini rendeva non molto sicure queste schiere di sedie fatte con fasce di legno ruvido spesso montate in modo orizzontale sia sulla seduta che sullo schienale e tinteggiate di verde scuro.

La domenica si riempivano all’inverosimile: oltre alla marea di noi ragazzini erano molte le coppie di fidanzati (con sempre al seguito la madre di lei sempre vigile a non far sì che le mani del fidanzato si allungassero più del dovuto sulla loro cara e illibata figliola) , famiglie intere con piccoli al seguito (vagiti compresi), gruppi di giovanotti baldanzosi, qualche vecchietto che si addormentava sulla sedia.

Questi erano gli spettatori cinematografici della nostra Sava di quei tempi. Nella seconda metà degli anni ’60 “Ringo” era il nostro idolo: Giuliano Gemma, sempre dalla parte dei “buoni”, con la sua imperdonabile pistola colpiva i “cattivi” del West! La freddezza glaciale di Lee Van Cleef era sempre pronta alla caccia di ricercati, “wanted”. Gli indiani, o meglio i pellirossa, ci venivano dati come i cattivi. E che dire del classico sigaro sempre acceso in bocca a Clint Eastwood e delle sue classiche poche parole ma con la rapidità di colpire con il revolver  l’avversario in modo incredibile?

Come non scorderemo mai il buffo Fernando Sancho sempre a capo di una sgangherata banda di fedeli rapinatori pronti ad eseguire gli ordini che lui stesso impartiva e sempre falliti: al ritorno di una missione punitiva sbagliata Fernando Sancho non conosceva mezze misure e alla risposta “Capo? Non siamo riusciti a….” lui era pronto con il suo revolver a giustiziare gli incapaci uomini che erano stati designati all’azione. Sergio leone ci forniva film western d’alta professionalità e di spessore elevato, migliori di quelli americani: “C’era una volta il west”, “Giù la testa”, “Per un pugno di dollari” (famosissima la frase di Gian Maria Volontè, bandito del west, “Quando un uomo con la pistola incontra un uomo con il fucile, quell’uomo è un uomo morto”),  “Per qualche dollaro in più” restano i capolavori inossidabili nel tempo e le stupende musiche realizzate da Ennio Morricone completavano i capolavori.

All’uscita del cinema mettevamo le mani all’altezza delle nostre tasche e imitavamo i cowboy armati di colt con il fischio dei proiettili che usciva dalle nostre morbide labbra. Molto frequenti erano le andate e i ritorni della corrente elettrica che bloccavano la proiezione e noi eravamo sempre ansiosi ad aspettare che la tanto attesa venuta della “luce” completasse la nostra visione e nel caso in cui la luce non arrivava, dopo tantissima attesa, ci vidimavano il biglietto per la prossima proiezione. Infatti non sempre riuscivamo a trovare il biglietto!

Quando qualcuno di noi faceva l’irrequieto era pronta la “maschera” a minacciare: “Aho? La tà spiccia o no?” La figura di Bruno Campa (Cuculoni) era imponente, massiccio e robusto, ci smorzava il fiato!

Avevamo paura di questo “omaccione” grande e grosso! Oggi, quando lo incontriamo, sicuramente gli sorridiamo in faccia nel senso buono, quasi a dirgli che non ci fa più paura ora! Era la seconda metà degli anni ’60 e Sava  cominciava a vedere il ritorno dei suoi emigranti nel periodo estivo: tornavano a Sava con tantissime valigie grandi e ingombranti e i loro figli, “parcheggiati” provvisoriamente dai nonni, quando sapevano del loro imminente arrivo erano tutti felici e contenti!

La stazione di Archignano era nel suo periodo più florido, le campagne erano ben curate e le file dei ceppi di vite cominciavano a dar colore ai grappoli d’uva, con le auto da noleggio, e la loro caratteristica puzza di nafta, pronte a portare a casa i nostri emigranti e al loro arrivo a casa vedevano i figli cresciuti e quasi irriconoscibili: le lacrime di gioia facevano da contorno a questa scena che i nostri occhi guardavano stupiti e contenti.

Cosa dire allora quando aspettavamo ansiosi che aprissero le loro valigie? Noi piccoli eravamo lì ad attendere che tirassero fuori dai bagagli le tante stecche di cioccolato, una più dolce dell’altra attese come una “manna”.

Dopo il dono ricevuto, andavamo a casa a mostrare il bellissimo regalo appena ricevuto: le stecche di cioccolato non duravano molto nelle nostre mani, il palato era prontissimo a degustarlo! Che tempi che erano quelli! Allora realizzare la casa, per i nostri emigranti, era la cosa più importante, la massima aspirazione e il loro massimo sogno per poter vivere tranquillamente nel nostro paese.

I giovanotti savesi iniziavano a rifiutare i lavori in campagna e, allora ventunenni, appena presa la tanto attesa patente, con i guadagni dei lavori nell’edilizia abusiva, firmavano le prime cambiali e compravano subito le prime auto usate (quasi tutte targate Bologna!) : la Fiat 500 con le portelle che si aprivano al contrario (qui noi, maschietti, eravamo molto attenti nel vedere chi scendeva dalla macchina …).

Le 600 Fiat con il cofano posteriore del motore sempre aperto per evitare la continua ebollizione del radiatore, le 1100 D Fiat con spesso su scritto, sul parabrezza posteriore, “e li tua!” e attaccato allo specchio retrovisore i gagliardetti coloratissimi di San Cosimo alla Macchia con la classica coda di volpe o con il gobbo portafortuna!

Il paese cominciava a riempirsi di auto usate e spesso sui cruscotti delle macchine vi era la targhetta metallica, cromata in color oro, con calamita che diceva “Non correre pensa a noi” oppure “Non correre papà”, targhette arredate da foto di figli, di mogli o di fidanzate!

Le Renault 6, le Mini Minor della Innocenti, le Austin Morris, le 128, i 125 e le 124 Fiat, le 850 berlina e quella coupè (quest’ultima, quando la vedevamo parcheggiata, illuminava i nostri occhi) completavano la rosa delle auto che sostituivano i vecchi traini, le vecchie biciclette e i “sciaraballi” ormai usurati dal tempo: Sava cominciava a cambiare i mezzi di trasporto!

Cominciavamo ad avere le prime radioline a transistor con l’auricolare:: che gioia! In questo periodo storico Sava era conosciuta in modo sinistro, purtroppo, dai paesi limitrofi per alcune disgrazie successe e ripetute nel nostro paese: vi fu un numero impressionante di suicidi! Quando per un motivo o per un altro ci trovavamo fuori da Sava, il forestiero ci chiedeva: “Di ddo siti vagliù?” e noi pronti “Ti Sava simu” e loro subito pronte le risposte “Ah! Ddonca si mpicunu!” oppure “Ai motu ca non si mpicunu a Sava?”.

Il nostro paese cominciava a cambiare volto e il cinema anche! Dopo l’incetta di western nei primissimi anni ’70 vi fu l’immensa ondata di film boccacceschi: “Il  Decameron” di Pier Paolo Pasolini, (famosissime le sue continue entrate e uscite dalle aule di tribunali di tutta Italia per sequestro e dissequestro) credo che aprì il nuovo filone per poi vederlo trasformare, da altri registi di piccolo taglio, in modo esplicito in chiave esclusivamente sessuale! Noi cosa facevamo?

Facevamo la fila fuori al cinema Vittoria “cu la speranza cu ni faciunu trasì”: niente e a casa! Troppo piccoli e invidiavamo quelli più grandi di noi che potevano avere libero accesso, fosse stato per noi avremmo messo mano all’orologio dell’età per portarlo ai diciotto anni richiesti! Provammo tantissime volte ma la risposta era sempre una e chiara: “Siti piccini, nno eti filmi pi bbui”.

Ce ne tornavamo mesti mesti, e non mancava la successiva bestemmia dei morti fra noi stessi rivolta a chi ci aveva fatto divieto di entrata,  e andavamo a giocare a bazzica da Ntunucciu Bisci. La nostra curiosità e la pimpante malizia potevano … attendere!

Molte famiglie savesi, in quel periodo, si trasferirono al nord Italia del tutto o all’estero nella vicina Germania o nella opulenta Svizzera: tutti i proventi dell’emigrazione venivano investiti nell’edilizia e Sava cresceva a dismisura, con tantissime nuove abitazioni, risultando, in seguito, negli anni a venire, di come il suo volume di fabbricati poteva essere benissimo idoneo per un centro urbano di 27 mila abitanti quando eravamo, e lo siamo tuttora, appena poco più della metà.

Dopo il boom dell’era “boccaccesca”, a cui noi era categoricamente vietato entrare, passò non molto inosservato “Arancia Meccanica” di Stanley Kubrik, con le sue straordinarie musiche di Rossini e di Beethoven, e i primi film di karatè completavano la nostra adolescenza in quanto eravamo già pronti per entrare nel mondo dei “grandi”: nni ziccamu acchià la zita.

Le ragazze savesi erano troppo timorose e chiuse, sentivano troppo il culto dell’autorità paterna, e la nostra giovanissima età trovò “rifugio” nei paesi limitrofi: San Marzano, Lizzano e Maruggio, seppur più piccoli della nostra Sava, risultavano i paesi più “disponibili” per noi ragazzi, nel periodo estivo era continua la “ricerca” della ragazza che veniva dal nord Italia che villeggiava a Torre Ovo.

Le nostre abitazioni venivano quasi tutte ristrutturate, ingrandite e cominciavamo ad avere le prime comodità: un bagno tutto nuovo con doccia e vasca, pavimentazione in ceramica lucida al posto del liscio di cemento grigio, molti caminetti venivano demoliti per dare spazio alle nuove comodità che ci venivano date dai termosifoni.

I primi jeans cominciavano a fare le prime comparse nel nostro abbigliamento, più erano targati e più ci piacevano: i Bell Botton, i King’s, i Bakamak, i Roy Roger’s, i Rifle, i Lewi’s, i Wrangler, davano forma alle nostre gambe e ai nostri glutei!

La prima “boutique” in Piazza San Giovanni, “Papillon”, diede a noi “giovanotti” i nuovi capi tanto desiderati: dodicimila lire a jeans era il prezzo “esorbitante” per le nostre modeste tasche!

I cinema savesi continuavano ad ospitare nelle sale i nuovi film polizieschi del poliziotto che non può sparare e del commissario che ha le mani legate per poi proseguire con il filone classico della commedia all’italiana con la sensuale Agostina Belli, e che dire di Laura Antonelli che in “Malizia” alimentava e turbava i nostri pensieri, oltre quelli di Alessandro Momo, e ritardava le nostre notti, allungando i nostri sogni!

Le nostre letture si spostavano da Capitan Miki, dal Grande Blek, da Tex Willer, da Zagor e dal suo affidatissimo Chico, dall’Intrepido e dal Monello a Ciao 2001 e ai settimanali come l’Espresso e L’Europeo: cominciavamo a vedere come era il mondo scritto fuori da Sava. Le ragazze savesi facevano incetta di fotoromanzi con storie d’amore molto ingarbugliate, molto simili alle nostre telenovelle odierne. Ancora i cinema di Sava erano pieni di savesi, il numero decrescente di spettatori iniziò alla fine degli anni ’70 con la nascita delle prime emittenti private televisive che iniziarono a trasmettere nelle nostre case film freschi di successo cinematografico.

L’ultima gloria cinematografica, almeno nel numero di savesi che si recavano nei cinema, è dettato dal  successo dei film hard-core, i quali hanno definitivamente chiuso, senza maggiori colpe in ogni caso, le sale cinematografiche a Sava.

I lunghi pomeriggi passati sulle sedie, rigide e dure, dove abbiamo lasciato una parte bella dei nostri sogni e dei nostri desideri e su tutto la nostra voglia di diventare adulti e grandi li teniamo sempre dentro di noi.

Questo erano i cinematografi savesi nostri … ma questo era un altro mondo, un’altra vita.

Giovanni Caforio

 

viv@voce

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